Domenica 26 marzo alle 15.30 negli spazi espositivi del Museo Ettore Guatelli di Ozzano Taro (Parma) verrà inaugurata la mostra fotografica “Idomeni blues – un posto sulla terra” del fotografo parmigiano Giulio Nori, fondatore e presidente dell’associazione “Le Giraffe”. Il giorno prima alle 16, alla Pinacoteca Stuard di Parma (borgo Parmigianino 2), si terrà un evento di presentazione dell’anno guatelliano che la direzione apre proprio con questo reportage fotografico, in allestimento fino a Pasqua.
“Idomeni blues – un posto sulla terra” è l’esito di un lavoro realizzato da Giulio Nori tra il 25 e il 28 marzo 2016. Il 25 marzo 2016 una carovana del progetto “Over the fortress”, espressione di diversi gruppi e centri sociali italiani, partì da Ancona per raggiungere il campo di Idomeni, ai confini tra la Grecia e la Macedonia, quello che è stato definito da un politico greco “la Dachau dei nostri giorni”. Nel terreno lungo i binari abbandonati della vecchia stazione del villaggio greco hanno vissuto da marzo a maggio dell’anno scorso oltre diecimila profughi dal Medio Oriente – in maggioranza siriani, afghani e iracheni – arrivati ai confini dell’Europa occidentale con mezzi di fortuna, la maggior parte lasciando i loro risparmi o debiti ai trafficanti di esseri umani. Mogli con figli piccoli che cercavano di percorrere la “rotta balcanica” per raggiungere nel nord Europa i mariti partiti prima di loro, minori non accompagnati che erano stati affidati ad amici o parenti o divenuti orfani durante il viaggio, giovani, anziani, donne incinte, neonati partoriti nelle tende innalzate accanto ai binari. Al campo, istituito dalle autorità greche come luogo di transito e divenuto anticamera di campi di identificazione blindati dopo le promesse mancate e la chiusura dei confini della Macedonia, si viveva in condizioni precarie ai limiti dell’umano, ma con una grande forza di resistenza.
Idomeni divenne un catalizzatore di presenze attirate da tutta Europa: volontari di organizzazioni internazionali come Medici senza frontiere o Save the Children, sigle istituzionali come l’Unhchr, gruppi militanti nazionali, giornalisti, fotografi. Chi distribuiva cibo e generi di prima necessità, chi si occupava della salute, chi costruiva tende e bagni chimici, chi realizzava reportage e chi, come gli attivisti della campagna italiana “Over the fortress”, ha monitorato la situazione, raccolto testimonianze e installato all’interno del campo un punto corrente, luce e wi fi, quest’ultimo essenziale per inoltrare al governo greco attraverso una chiamata skype la richiesta di asilo. Tra le trecento persone partite da Ancona erano presenti anche sei attivisti di Art Lab Occupato di Parma, il collettivo di borgo Tanzi che ha aderito alla campagna.
Al loro arrivo a Idomeni c’era già là il fotografo parmigiano Giulio Nori che si era messo in viaggio un giorno prima dall’Italia con due amici. «Sono partito principalmente per cercare di conoscere le persone presenti al campo di Idomeni – racconta -. Avevo con me 3 leica analogiche e 25 rullini in bianco e nero. Ma ne ho scattati solamente sei, fondamentalmente perché il parlare e l’interagire con le persone del campo ha decisamente preso il sopravvento rispetto al “lavoro” fotografico».
Di giorno, il fotografo percorreva da solo in lungo e in largo il campo, «incrociando di tanto in tanto i compagni arrivati da Parma»; la sera, alloggiato in una stanza «trovata per caso – e per fortuna…- a Polikastro, la cittadina più vicina al villaggio di Idomeni», ha avuto incontri a cena «altrettanto fortuiti» con operatori della comunicazione di diversi Paesi, uniti dal sostare nel campo divenuto un simbolo in tutta Europa. «Ho scattato in analogico, bianco e nero – spiega l’autore – e una volta fatti sviluppare i negativi mi sono reso conto che avrei potuto ottimizzare il materiale dividendolo in tre sequenze, concatenate l’una all’altra: Ombre, Materia e Persone. Le tre sequenze rappresentano anche una sorta di mio personale avvicinamento alla vita all’interno del campo profughi».
Il reportage ha come nota fondamentale il blues, la musica «dell’anima, del fango e del sudore – è scritto nella presentazione -. Del lavoro e della malinconia, quella vera (di malinconia). Del camminare, spesso scalzi, delle code di persone durante la grande depressione. Del cadere sulle ginocchia, del rialzarsi, dell’andare avanti, del sentirsi stanchi, della polvere, delle mani gonfie, e dell’amore. Nonostante tutto».
Spiega il direttore della Fondazione Museo Ettore Guatelli, Mario Turci: «Ogni anno dedichiamo alla stagione un tema portante; per il 2017 abbiamo scelto il tema dello spaesamento e della ricerca di identità. Il lavoro fotografico di Giulio Nori con cui inauguriamo questo nuovo arco temporale parla di una dimensione, seppur drammatica, relativa a questi due stati d’animo. La ricerca dell’identità può essere un desiderio oppure può essere imposta, come nel caso di molti migranti. “Idomeni blues” è un lavoro di indagine sull’uomo là dove vive il dramma del viaggio e della perdita del paesaggio proprio; è uno sguardo sull’umanità profondo che veicola una drammaticità non ostentata. La foto testimonial che sarà diffusa sabato alla Pinacoteca Stuard come invito alla mostra è un cancello con filo spinato che ricorda, neanche tanto vagamente, i cancelli di Auschwitz».
Nel reportage di Nori, barriere che identificano la costrizione convivono con elementi naturali liberi, dotati di una segreta eloquenza, e con profili di persone mai rassegnate, mai piegate, che, semplicemente, vivono, e attendono. Scatti fotografici che intercettano la messa in atto di risorse ancora presenti nonostante il contesto disperante, o forse proprio in virtù di quello.
Laura Caffagnini
